Una delle fobie più conosciute è la fobia di uscire di casa; ci priva dello scambio vitale con l'esterno e ci rende dipendenti dagli altri
Di solito si inizia così: si comincia a passare molto tempo in casa. A volte perché coincide con il luogo di lavoro, o a causa di una prolungata malattia o di una maternità a rischio, o per la perdita graduale di abitudini che portavano a uscire. Nel primo periodo la casa viene sentita come luogo accogliente, che protegge dall'esterno. Poi si fa strada un progressivo impigrirsi che, anche di fronte alla possibilità di uscire per un po' di svago, porta a chiedersi: "Chi me lo fa fare? Se non è proprio necessario...". Ma superato un certo tempo qualcosa si altera nell'equilibrio e la persona non riesce più a uscire dalle mura domestiche, se non con un grande sforzo. Si sente insicura: pensa alle cose brutte che capitano "là fuori", o che potrebbe non sentirsi bene. A volte non sa neanche dire perché sta facendo così: semplicemente qualcosa la tiene "lì", chiusa in quello che prima era un nido o un rifugio e che oggi è diventato senza accorgerci una gabbia, una prigione.
È una forma di disturbo d'ansianoto come "agorafobia", cioè la paura degli spazi aperti, ma il termine non esprime bene l'elemento principale, la matrice depressivadel disagio. A prescindere infatti dai motivi che hanno innescato il chiudersi in casa, a un certo punto la persona perde lo scambio vitale con l'esterno e si sgancia dalla realtà. La vita in casa è ovattata, senza tempi definiti, e l'energia vitale su se stessa con effetti depressivi: toglie motivazione, crea stanchezza cronica e atteggiamenti di passività, di apatia o di resa. In chiave psicoanalitica si direbbe che essere tornati troppo a lungo nel grembo materno (per analogia: la casa) ha fatto ritornare "piccoli": il soggetto riacquisisce paure infantili che non gli appartenevano più. È bene perciò non sottovalutare l'agorafobia che potrebbe spingere verso stati depressivi più intensi che in realtà sono assolutamente evitabili.